Il sogno ritorna

Comune di Piadena
Lega di Cultura di Piadena

Palazzo Comunale di Piadena
6 – 22 Settembre 2002

Il sogno ritorna

Fotografie di Giuseppe Morandi

Presentazione della prima esposizione (2002)

Il sogno ritorna: cosa può avere a che fare un titolo così allusivo, forse intimistico, con il racconto stringente, profondamente storico e aderente alla realtà fisica, materiale, che Giuseppe Morandi svolge con la fotografia e il cinema dalla metà del secolo scorso? Qual’ è il sogno e quale ritorno sono suggeriti in queste immagini del 2002?
La serie segue quella sugli immigrati di Piadena, il “volto del tempo” in un paese, in un luogo circoscritto che il nostro autore battezza “La mia Africa”. Aveva iniziato, incoraggiato dalla Biblioteca civica di Piadena, con il proposito di mostrare il luogo attraverso i rituali collettivi, gli aspetti della massificazione che sconvolgono un tessuto di rapporti, che ne rendono obsoleta e improponibile ogni forma di convivialità che non passi attraverso il danaro: le file al supermercato, le partite allo stadio, quelli che una volta si chiamavano i riti del consumo e che adesso sembrano essere la normalità, se non l’ unica realtà possibile. Però Morandi non trova interessante, non trova utile a nessuno raccontare di un disastro avvenuto. Sceglie allora di tracciare il ritratto delle persone che portano qualcosa di nuovo, con un po’ di retorica si potrebbe dire il ritratto di “quelli di Piadena” del nuovo millennio. Quindi gli immigrati, dall’ Africa e dall’ India e dall’ oriente ma anche dal meridione dell’ Italia, in un paesaggio entro cui rituali e culture sembrano mescolarsi in modo indistinto, cercando di rintracciare i fili che legano e identificano civiltà differenti; sullo sfondo alcuni valori forti: dignità, solidarietà, consapevolezza. 

La mia Africa, quindi, come racconto ravvicinato della trasformazione, racconto di una nuova coralità fatta da soggetti diversi che modificano il paesaggio umano dei luoghi di Morandi, soggetti che ne vengono anche modificati, ma al nostro autore evidentemente non interessa unificare tutto, mostrare l’ integrazione come omologazione: Il sogno ritorna è proprio un approfondimento, una precisazione in questo senso.

La prima fotografia ritrae una bambina, Simona Metha, al centro dell’ aia della cascina in cui abita, nel mezzo di un’ inquadratura di impianto frontale, centrale, siamo nella primavera del 2002. Lei ha scelto dove farsi fotografare, la posa da assumere ed il modo di mostrarsi, Morandi l’ha posta all’ apertura di questo racconto minimo, semplice ma raffinatissimo. E’, appunto, una fotografia in qualche modo sognante e tesa tra la bellezza di Simona e il racconto puntuale della scena (la luce del sole che la staglia sul fondo con le macchine agricole sembra puntata sulla scena proprio per lei), del luogo. Sappiamo che lei è il futuro di un intero mondo, che questo è lo scenario di un inizio. 

Ancora centrale, simmetrico come nella tradizione del gruppo di famiglia, è l’immagine festiva della famiglia Metha: Jagjit in giacca e farfallino, la moglie Pushpa sobriamente elegante, i figli Simona e Hani con abiti più vivaci.

Non sono fotografie particolarmente centrate su un evento né su una situazione particolari. Sono immagini non molto diverse da quelle che chiunque si trovi in casa una macchina fotografica fa alla propria famiglia, magari con l’ autoscatto, e nemmeno l’ origine delle persone (le storie complesse, a tratti drammatiche che hanno portato Jagjit e i suoi a Piadena) sembrano lasciare tracce in queste fotografie della normalità. 

Anche l’ immagine dei giochi appare priva di costruzione, ma se le guardiamo e le pensiamo con più attenzione (le fotografie di Morandi hanno sempre richiesto e prodotto molta attenzione, molto pensiero) ci rendiamo conto che la fisicità dei giochi, la sottolineata stabilità dei ruoli (il padre che regge, solleva, porta come in trionfo…) appartengono a un modo di concepire il rapporto tra generazioni ormai da noi dispersa, forse irrimediabilmente mediata dagli oggetti (il giocattolo o l’ accessorio regalati ai figli, la televisione da guardare assieme se va bene…) o dislocata in spazi in qualche modo neutri (i corsi sportivi, di lingua, di musica… addestramento e attrezzatura per una socialità che viene rimandata sempre dopo, sempre altrove) così che queste fotografie del gioco assumono un’ aria desueta, sembrano rimandare ad un tempo che l’ occidente ha perso. Appunto come un sogno che torna. 
Ancora i bambini, a casa e in paese con un amico, ancora corpi che parlano di modelli che si sovrappongono: Simona conosce meglio il “come si sta davanti ad una camera”, conosce ed ammira le figure della televisione mentre Hani sembra meno attrezzato a questo, più impacciato in rappresentazioni in cui l’ azione o la recitazione esplicita non hanno ruolo, ma nella fotografia a colori della piccola “banda urbana” nella piazza di Piadena questi futuri “tre dell’ Ave Maria” (è il soprannome che Morandi aveva dato a tre attivisti sindacali, ritratti in Volti della Bassa Padana negli anni Ottanta) mostrano una fierezza diversa.

Il lavoro di Jagjit, un tassello della ricerca sul cambiamento del lavoro agrario, richiama ancora le inquadrature di I Paisan, e a parte l’ abbigliamento e alcuni attrezzi (un berretto da baseball invece della calotta incrostata di sterco, la mungitrice elettrica…) sembra ricalcare le immagini dei contadini di quarant’ anni prima.

Quando Morandi fotografa in questo modo così lineare, così apparentemente sempre uguale a se stesso si potrebbe pensare ad una comoda semplificazione, ad una messa tra parentesi della storia e delle trasformazioni che quella società ha subìto, ma credo che i suoi strumenti vadano interpretati in altri termini. 

Forse Morandi ha capito prima di altri che il modello bidimensionale di molte analisi sociologiche e etnografiche, diacronia/sincronia, sviluppo storico/situazione bloccata in un dato istante, di stampo strutturalista e derivato dalla linguistica post saussuriana, serve più a costruire altri modelli astratti che non a capire una data realtà. Se quindi avesse inseguito fotograficamente le “novità”, le code dei supermercati e gli spazi dell’ alienazione, avrebbe ridotto il proprio ruolo a quello di illustratore di luoghi comuni.

La stessa opposizione tra città e campagna corrisponde ad una semplificazione che il nostro autore ha sempre avuta presente quando rilevava i modelli urbani dei Paisan, quando leggeva le città della Lombardia dal punto di vista della campagna, quando affronta nodi complessi tra politica e soggettività, tra destino e desiderio. Quindi Morandi aggiunge altri dati a quello della storia e a quello del racconto del “come è ora”, lavora per serie e non per belle e singole immagini, racconta relazioni e non singoli episodi; quando stringe il campo su un volto, su un corpo, è per condividere e rendere condivisibile la sua posizione in uno spazio più ampio. Allora è necessario mostrare il lavoro agrario in termini immobili per meglio rendere i cambiamenti, il suo inserirsi in un’ area di racconto che si allarga ad altri tempi e ad altri luoghi, ad altre culture; raccontare di una famiglia sconfinando dal racconto privato, anche sociologico, rende visibile la complessità di quello che accade ad un intero gruppo sociale. 

Vediamo così il bergamino di origine indiana che ripete i gesti di quello cremonese come vediamo la moglie inserviente dell’asilo nido che aggiunge la sua immagine a quella di altre scene urbane raccontate da Morandi, però vediamo anche che la storia non si riduce ad omologazione nei circuiti della vita sociale ed economica: i giochi, i coloratissimi sari di Pushpa e dell’ amica Rani Rabita che cambiano il paesaggio di Piadena; i costumi tradizionali indossati nelle fotografie a colori attualizzano un “altrove” (e Morandi non cerca di ricondurlo ad una “normalità” locale, anzi, li sottolinea con lo sfondo di fiori di pesco nel giardino della Maga) che non si contrappone ma allarga la scena del paese lombardo.

Ancora l’aia dell’ abitazione della famiglia Metha: è chiaramente un luogo dove, al nostro sguardo, i tempi si intrecciano (come accade anche nei sogni…) sfidando la linearità che noi attribuiamo ai processi di cambiamento: i nuovi abitanti della nostra campagna riportano segni di un’ altra storia, Pushpa e la madre di Jagjit indossano abiti col tessuto a stampe floreali come erano comuni nei nostri anni Cinquanta, perfettamente armonici con la tradizionalissima tenda a far ombra all’ ingresso, che verso la fine della sequenza si farà elemento scenico di un divertito gioco mimico dei nostri personaggi.

La fotografia di Morandi traccia sintesi stringenti tra bellezza e semplicità; lasciando fuori campo ogni ipotesi di recitazione, di regìa e costruzione dell’ immagine, lascia spazio alla teatralità dei corpi. 
La sequenza procede e finisce su registri leggermente spostati rispetto a quelli abituali di Morandi. Sono immagini giocose, recitate, minimamente allestite, ma in queste finzioni minime c’ è molta verità (dislocata e condensata, come in una classica idea di sogno): una sorta di turbante sopra a una maglietta targata “Florida”, un combattivo corpo a cui basta un perizoma e un turbante per viaggiare in una storia salgariana. 

Ma la mitologia dei Tigrotti di Mompracem è scritta da uno che non ha mai messo piede in India, come molti di noi, è tutta torinese e appartiene alla nostra coscienza, al secolo scorso; forse è partendo dal gioco di specchi contrapposti del gioco, del sogno degli altrove che è possibile forzare i confini del luogo comune, delle definizioni di comodo, proporre una conoscenza diversa di quello che siamo e del luogo che abiteremo.

Paolo Barbaro
luglio 2002


Lascia un commento